Blog : Malattie del gatto

Vomito, istruzioni per l’uso!

Vomito, istruzioni per l’uso!

Il vomito è uno dei sintomi più comuni nei nostri cani e gatti. 

Vediamo di capire meglio come gestirlo:

II vomito o emesi è l’espulsione rapida attraverso la bocca di materiale gastrointestinale, provocata dalla rapida contrazione involontaria dei muscoli dell’addome, associata ad un’apertura del cardias (lo sfintere attraverso il quale l’esofago sbocca e s’immette nello stomaco) in seguito ad un’onda antiperistaltica che parte da quella parte di piccolo intestino detta digiuno.

Il materiale emesso può essere alimentare o non alimentare.

E’ bene differenziare il vomito dal rigurgito perché quest’ultimo è una risalita del contenuto gastrico nella bocca che avviene senza la contrattura dei muscoli dell’addome e non preceduta da nausea.

Dopo il vomito può venire molta sete, ma finché lo stomaco è infiammato ne conseguiranno ulteriori episodi di vomito. 

E’ bene quindi togliere le ciotole di acqua e cibo per qualche ora dopo il vomito. 

Il vomito è un sintomo molto aspecifico. 

Può essere dovuto a cause riferibili al tratto digestivo:

– Malattie ostruttive, tra cui neoplasie

– Ulcere

– Infezioni, tra cui gastrite, gastroenterite

– Malattie infiammatorie, tra cui colecistite, pancreatite, appendicite, epatite

– Alterazioni della motilità

 

Oppure può essere secondario a cause estranee al sistema digerente:

– Malattie cardiopolmonari

– Alterazioni del sistema sensoriale, tra cui cinetosi, labirintite

– Malattie e disfunzioni cerebrali, tra cui commozione, emorragie, ascessi, idrocefalo, tumori, ipertensione endocranica

– Alterazioni metaboliche, fisiologiche o indotte:

Malattie della tiroide e paratiroidi

Uremia

Chetoacidosi

Insufficienza surrenalica

Ipoglicemia ed iperglicemia

Gravidanza

 

– Assunzione di varie sostanze:

Farmaci, tra cui chemioterapici, analgesici, antibiotici, digossina, oppiacei, gli appositi farmaci emetici

Sostanze tossiche.

Tossine endogene, o di origine microbica prodotte in corso di infezione o introdotte per via alimentare.

 

Dopo il digiuno è possibile somministrare un protettore gastrico (Solo dopo consulto con il Veterinario curante) e poi proporre una dieta molto digeribile e frazionata (piccoli pasti frequenti) per qualche giorno.

Ovviamente è fondamentale individuare la causa scatenante il vomito ed è quindi bene consultare il proprio Veterinario e prenotare una visita tempestiva qualora gli episodi di vomito fossero ripetuti. 

Una causa particolare di vomito può essere la cinetosi ovvero la nausea scatenata dal “mal d’auto”, per prevenire questo malessere è bene abituare sin da piccoli i nostri animali ai viaggi proponendo dei percorsi via via più lunghi (si può partire dalla sosta in auto per qualche minuto, al giro dell’isolato e così via… ).

E’ possibile inoltre ricorre a particolari cerotti allo zenzero da applicare su pettorina/trasportino fino a veri e propri farmaci antinausea dopo essersi consultati con il proprio Medico Veterinario. 

Importantissimo ricordarci che conati di vomito improduttivi (ovvero senza emissione di contenuto gastrico) sono tipici della torsione di stomaco (Vedi: https://www.clinicaveterinariasanmaurizio.it/che-cose-la-torsione-dello-stomaco-e-come-prevenirla/) che è una vera e propria emergenza e che è quindi bene, in caso di comparsa di questo tipo di sintomatologia, di recarci immediatamente dal Veterinario per una visita. 

Crisi convulsive e stato epilettico nel cane e nel gatto

Crisi convulsive e stato epilettico nel cane e nel gatto

Le crisi convulsive sono un’ emergenza molto frequente nei nostri animali; si realizzano quando alcuni neuroni sviluppano una attività anomala a cui sono associate differenti manifestazioni cliniche, dipendenti dall’ estensione e dalla localizzazione dell’area cerebrale coinvolta.

Proprio per il fatto che possono essere interessate diverse aree del sistema nervoso centrale, e quindi manifestare sintomatologie differenti, è difficile descrivere univocamente tutte le crisi convulsive.

L’area del cervello dove si verifica l’attivazione di una popolazione di neuroni viene definito “focus epilettogeno”, l’attività anomala dell’area può generare manifestazioni cliniche differenti in funzione alla dimensione dell’area cerebrale colpita ed all’attività dei neuroni inibitori circostanti, questi ultimi bloccano il propagarsi della scarica elettrica ed il manifestarsi dei sintomi.

Quando questi neuroni sono in grado di inibire la scarica elettrica, il paziente non manifesta segni evidenti di una crisi convulsiva, che è però rilevabile con l’elettroencefalogramma (EEG).

In alcuni pazienti l’equilibrio tra focus epilettogeno e neuroni inibitori può rompersi a seguito di alterazioni  metaboliche quali ad esempio: ipoglicemia, ipossia, squilibri elettrolitici, ipertermia, in questi casi possono manifestarsi i sintomi della crisi convulsiva.

 

 

Le crisi convulsive possono essere distinte in:

  • crisi focali;
  • crisi convulsive parziali (semplici o complesse);
  • crisi convulsive generalizzate.

Le crisi convulsive focali, non sono rilevabili clinicamente, ma alterano l’elettroencefalogramma.

Le crisi convulsive parziali si distinguono in semplici o complesse, sono rilevabili clinicamente come contrazioni di alcuni gruppi muscolari, alterazioni del sensorio con o senza perdita di coscienza e dovute all’attivazione di una piccola area del prosencefalo alterata strutturalmente o di origine idiopatica.

Le semplici sono responsabili di un’attività contratturale della muscolatura scheletrica, mentre le complesse, oltre alla contrazione della muscolatura scheletrica, possono dare origine a crisi generalizzate e sono associate ad alterazioni comportamentali o della coscienza. Entrambe possono colpire un solo lato del paziente indicando così l’area coinvolta.

Le crisi convulsive generalizzate si manifestano con contrazioni della muscolatura scheletrica, perdita della stazione, movimento di pedalamento, dilatazione pupillare, perdita della coscienza, mandibola serrata, possibile scialorrea, perdita di urine e feci.

Le crisi possono durare pochi secondi o minuti; quando le crisi non manifestano segni di recupero, ma persistono (5 minuti o più) si definisce stato epilettico che può produrre lesioni neurologiche e necrosi dei tessuti nervosi. Lo stato epilettico può presentarsi anche come crisi convulsive di lunga durata intervallata da periodi di incoscienza.

Le crisi cosiddette a grappolo o cluster sono crisi convulsive che si ripetono nell’arco di 1-24 ore. Tra una crisi e la successiva il paziente ritorna a uno stato mentale e motorio normale con una fase “post ictale” (Vedi sotto), in alcuni casi il paziente può restare incosciente.

Lo stato epilettico necessita di cure immediate perché può compromettere le funzioni vitali impedendo una normale ventilazione e perfusione tessutale, le crisi convulsive possono talvolta essere gestite con terapie domiciliari.

Nelle crisi convulsive si distingue una fase pre ictale, o pre-crisi, durante la quale è possibile riscontrare alterazioni comportamentali e molto frequentemente agitazione con ricerca del proprietario e può durare da pochi secondi, a ore o addirittura giorni.

La fase ictale corrisponde alla crisi vera e propria con la comparsa della caratteristica sintomatologia.

La fase post ictale ha durata estremamente variabile da pochi minuti ad alcuni giorni può manifestare una sintomatologia molto varia, ad esempio: debolezza, disorientamento, paura, midriasi, cecità di origine centrale transitoria e polifagia.

 

Le cause delle crisi convulsive possono essere classificate in due grandi categorie: intra e extra craniche.

Le extracraniche sono in genere conseguenti a squilibri metabolici o patologie sistemiche che producono alterazioni dello stato elettro-fisiologico del tessuto cerebrale causando più frequentemente crisi convulsive generalizzate.

Possono essere dovute a:

  • accumulo di tossine (ad es. insufficienza epatica e renale);
  • disturbi metabolici (ad es. ipoglicemia, iperlipidemia, ipocalcemia, ipotiroidismo);
  • ipossia;
  • ipertermia;
  • intossicazioni (ad es.: teobromina, caffeina, organofosfati, piombo, stricnina);
  • parassiti intestinali.

Le patologie di origine intracranica, identificate come cause primarie sono:

  • patologie congenite (ad es. malformazioni);
  • neoplasie cerebrali;
  • processi infiammatori (ad es.: encefaliti);
  • degenerazione (ad es. da compromissione vascolare)
  • traumi.

I farmaci d’elezione di primo impiego nella terapia dello stato epilettico sono le benzodiazepine a rapida diffusione nel sistema nervoso centrale quali il diazepam o il midazolam.

Quando non è possibile avere un accesso vascolare è possibile somministrare le benzodiazepine  per via rettale.

I pazienti refrattari alla terapia con le benzodiazepine devono trattati con i barbiturici ( Es. fenobarbitale).

Oltre all’utilizzo di farmaci anticonvulsivanti è necessario controllare la temperatura, di fatto l’attività convulsiva può causare un drammatico aumento della temperatura basale (anche maggiore di 40,5°C).

Nei pazienti ipertermici  è necessario un intervento veterinario rapido. Nel frattempo è possibile bagnare con acqua fresca le estremità degli arti e, se necessario, usare anche un ventilatore, tale procedura deve essere effettuata fino al al raggiungimento dei 39,5°C (oltre può esservi rischio di ipotermia).

E’ sconsigliato l’utilizzo del ghiaccio a contatto con la superficie corporea per evitare la vasocostrizione locale che ostacola la termodispersione.

L’ipertermia può causare coagulazione intravasale disseminata, ipoglicemia, ipotensione, edema polmonare e compromissione della funzione cerebrale e vitale.

Il deficit della perfusione può essere conseguente all’ipertermia e allo shock distributivo; i pazienti devono essere strettamente monitorati e trattati con ossigenoterapia o ventilazione a pressione positiva.

Comunemente a seguito di una violenta attività convulsiva si verifica un’edema cerebrale che deve essere trattato tempestivamente.

Quando il paziente è stabile può essere impostata una terapia con fenobarbitale ed eventualmente con bromuro di potassio a discrezione del neurologo veterinario.

Il fenobarbitale è il barbiturico più utilizzato nelle sindromi convulsive sia nel cane che nel gatto, ha una lunga emivita e sono necessari 10-15 giorni per raggiungere un livello costante nel sangue; la fenobarbitalemia deve essere mantenuta in un intervallo di 15-45 mcg/ml.

La dose di barbiturico può essere ridotta quando lo si associa alla somministrazione di bromuro di potassio in quanto potenzia l’effetto del fenobarbitale senza gravare sulla funzionalità epatica poichè è escreto per via renale; possiede una lunga emivita lunga e sono necessari 120 giorni per raggiungere un livello costante ematico.

Altri anticonvulsivanti utilizzati sono il gabapentin, il pregabalin e la zonisamide.

La pancreatite nel gatto

La pancreatite nel gatto

La pancreatite felina è una vera e propria sfida diagnostica e terapeutica.

I sintomi clinici più frequenti sono letargia (100%) e parziale o completa anoressia (97%), raramente si manifestano vomito (35%) e dissenteria (15%).

Nonostante siano numerosi gli stimoli ipotizzati per lo sviluppo di pancreatite felina, una reale causa di solito non è evidente, per cui frequentemente si definisce idiopatica (ovvero senza una causa definita).

In corso di pancreatite le complicanze possono essere molteplici, tra cui diabete mellito, sindrome da risposta infiammatoria sistemica (SIRS), insufficienza renale acuta (IRA), coagulazione intravascolare disseminata (DIC), aritmie, ostruzione del dotto biliare, coagulopatie vitamina K responsive, lipidosi epatica (HL), ipopotassiemia, edema polmonare, acute lung injury (ALI), acute respiratory distress syndrome (ARDS) fino alla multiple organ dysfunction syndrome (MODS).

Si ritiene inoltre che la pancreatite possa progredire in pancreatite cronica (PC) e insufficienza pancreatica esocrina (EPI).

I risultati degli esami emocromocitometri, biochimici ed urinari in corso di PA sono aspecifici. Il paziente può quindi presentare una vasta gamma di anormalità ematologiche, influenzate soprattutto dalla presenza di stati patologici concomitanti. 

Importante notare come il riscontro di leucopenia o di ipocalcemia ionica siano associati ad una peggiore prognosi. 

La misurazione della fPLI-Specifica sierica è il più sensibile (79%-100%) e specifico (67-100%) marker disponibile per la pancreatite acuta felina.

L’fPLI-Specifica è un test quantitativo e valori > 5,3 µg/L sono indicativi di pancreatite, mentre valori compresi tra 3,5-5,3 µg/L sono considerati di dubbia valutazione. Oggi è disponibile un test SNAP (rapido) fPLI semi-quantitativo in cui un risultato positivo allo SNAP indica un fPLI > 3.5 µg/L.

Nonostante l’esame radiografico addominale (Rx-A) in corso di PA spesso mostri un quadro aspecifico, è comunque utile per escludere altre malattie con sintomatologia simile.

L’ecografia addominale (Eco-A) è un utile strumento per diagnosticare, escludere o rilevare PA ed ulteriori processi patologici concomitanti. Pancreas ipoecogeno, mesentere iperecogeno e versamento addominale sono relativamente specifici per pancreatite, tuttavia neoplasie ed altre alterazioni pancreatiche possono dare un quadro simile.

Il gold-standard per diagnosticare ante-mortem la pancreatite nel gatto è l’istopatologia, tuttavia molti gatti con PA non sono dei buoni canditati per l’anestesia che tale procedura richiede. Il prelievo tramite ago-aspirato (FNA) eco-guidato è un esame mini-invasivo e il conseguente esame citologico può essere un’alternativa all’istopatologia pur non essendoci studi sulla sua sensibilità e specificità.

Non esiste un sistema di classificazione universalmente riconosciuto per definire la gravità della pancreatite. Quest’ultima viene ancora stimata sulla base dell’evidenza clinica, laboratoristica e sulla presenza di complicanze, considerando tutto in un unico quadro d’insieme.

 

Il fondamento della terapia dei gatti con grave pancreatite è il mantenimento dell’equilibrio idrico ed elettrolitico.

La maggior parte di questi pazienti non tollera l’alimentazione intragastrica ed è necessario ricorrere all’applicazione di un sondino. 

La somministrazione di antibiotici viene attuata a scopo profilattico, in particolare se il paziente presenta febbre o mostra alterazioni tossiche dell’emogramma. La terapia antiemetica è indicata se il vomito è persistente e possono essere utili anche gli agenti procinetici come la metoclopramide in infusione continua, fondamentale è inoltra una buona terapia antidolorifica per migliorare la compliance del paziente. 

In tutti gli animali con pancreatite si raccomanda la protezione della mucosa gastrica con H2-bloccanti. 

Per correggere la grave ipoalbuminemia e garantire una fonte di fattori della coagulazione, antitrombina III ed inibitori delle proteasi, si può ricorrere alla trasfusione di sangue intero o plasma.

Le percentuali di sopravvivenza a questa patologia sono sconosciute, perché la diagnosi in vita risulta difficile. Tuttavia, nei gatti con pancreatite acuta e lipidosi epatica concomitanti la prognosi è molto più sfavorevole rispetto a quelli in cui la lipidosi epatica è presente da sola. 

Una recente indagine ha determinato che la percentuale di sopravvivenza dei gatti con pancreatite e lipidosi epatica concomitante è pari al 20%, mentre in quelli senza pancreatite è del 50%.

UN INCUBO CHIAMATO GIARDIA!

UN INCUBO CHIAMATO GIARDIA!

La Giardia è un parassita intestinale estremamente diffuso. Può infestare l’intestino sia del cane che del gatto, determinando sintomi più o meno evidenti, anche gravi.

La giardiasi è una parassitosi causata dal flagellato intestinale Giardia duodenalis, protozoo cosmopolita di numerose specie di mammiferi, sia domestici (cane, gatto, ovini, bovini, ecc.) che selvatici. 

La Giardia ha due forme biologiche, il trofozoite, che vive nell’intestino dell’ospite nutrendosi e riproducendosi asessualmente, e la cisti, che viene emessa con le feci dell’ospite ed è necessaria per la trasmissione del parassita.

La trasmissione della Giardia è di tipo oro-fecale, dovuta alle cisti del parassita che, emesse con le feci dell’ospite, rimangono vitali nell’ambiente per lungo tempo, in attesa di essere ingerite da un nuovo ospite. 

Il contagio può avvenire per contatto diretto con un ospite infetto (cisti possono essere presenti sulle mani di una persona o sul pelo di un cane) o con l’ambiente da esso frequentato e contaminato (es. il suolo di un giardino in cui viva un cane infetto), o per ingestione di cisti presenti nelle acque o su alimenti di origine vegetale utilizzati crudi.

Essendo Giardia duodenalis in grado di parassitare numerose specie di mammiferi, la trasmissione zoonotica tra animali ed uomo è possibile. Tuttavia gli animali domestici come cani, gatti e bovini sono spesso parassitati da ceppi specie specifici, non in grado di infettare l’uomo. 

I ceppi umani sono invece tutti zoonotici ed in grado di infettare numerose specie di mammiferi (es. cani, gatti, scimmie, ecc.).

L’infezione da Giardia può essere asintomatica, ma generalmente la parassitosi si manifesta con diarrea intermittente, feci particolarmente maleodoranti con muco, vomito, crampi addominali, gonfiore e flatulenza. 

Nel cane sono frequenti casi di infezioni totalmente asintomatiche.

Un animale parassitato può eliminare ogni giorno con le feci migliaia di cisti di Giardia, in grado di rimanere infettive per mesi se si trovano in un ambiente idoneo, come per esempio un giardino ombroso. Le cisti possono essere presenti anche sul pelo del nostro pet. 

La principale misura preventiva nei confronti di un parassita di questo tipo è l’osservanza delle normali norme igieniche: lavare le mani con frequenza, raccogliere le deiezioni e detergere bene l’area perinatale del nostro animale. 

Nel caso in cui la giardiasi sia stata diagnosticata al nostro animale domestico, queste norme devono essere applicate rigorosamente e bisogna prestare la massima attenzione per limitare la fecalizzazione ambientale raccogliendo le deiezioni e detergendo rigorosamente l’area perianale. 

È fondamentale impedire al cane di mangiare le proprie feci e quelle di altri cani.

E’ raccomandato pulire gli ambienti contaminati dalle feci con prodotti disinfettanti.

Giardia duodenalis è uno dei parassiti più frequentemente diagnosticati nei cani, siano essi padronali o di canile. 

Negli ultimi anni la sua diffusione in quest’ospite sembra essere in aumento, tuttavia si potrebbe trattare di un aumento apparente, legato in realtà ad un’accresciuta attenzione dei veterinari nei confronti di questo parassita. 

L’alta fecalizzazione ambientale tipica dei canili e la coprofagia di alcuni cani favoriscono senz’altro la trasmissione e la diffusione di questo protozoo. 

I cani sono per lo più parassitati da un ceppo specie specifico, ma possono infettarsi anche con i 2 ceppi zoonotici A e B. 

I casi di giardiasi nel gatto sono molto più rari, fondamentalmente grazie all’innata “pulizia” di quest’ospite.

La giardiasi nel cane deve essere sospettata in caso di diarrea, anche intermittente, particolarmente maleodorante. 

La sintomatologia è di solito più grave nei cuccioli ed in generale in quei soggetti il cui sistema immunitario è compromesso (Es. animali debilitati, anziani e in quelli che soffrono di altre patologie concomitanti).

La diagnosi si effettua con un esame a fresco o con un test ELISA su campioni di feci, in grado  di mettere in evidenza gli antigeni presenti in esse.

Esistono dei farmaci specifici, prescrivibili eventualmente dal Medico Veterinario, in grado di debellare l’infestazione. La ricomparsa del parassita è frequente, nonostante il loro utilizzo.

La somministrazione di prebiotici e probiotici per nutrire i microorganismi intestinali è un validissimo supporto terapeutico.

Debellare questo parassita può non essere semplice, a causa della sempre maggior frequenza di ceppi resistenti ai più comuni farmaci. 

In generale, può non essere sufficiente un unico ciclo di trattamento ed è altamente consigliato un controllo post trattamento, per verificare se il parassita sia stato effettivamente eliminato.

Il Sarcoma “Iniezione indotto” del gatto

Il Sarcoma “Iniezione indotto” del gatto

 

I sarcomi iniezione-indotti felini sono neoplasie maligne di origine mesenchimale che insorgono nella sede tipicamente utilizzata per l’esecuzione di iniezioni sottocutanee o intramuscolari.

Sono caratterizzati da un basso potere metastatico ma da una notevole tendenza alla recidiva locale se non asportati con margine laterale e profondo molto ampio.

Una loro caratteristica peculiare è il tempo di latenza anche di mesi o anni  tra l’esecuzione dell’iniezione e lo sviluppo del tumore, seguito però da una rapidità di crescita molto elevata, tanto da raggiungere dimensioni di alcuni centimetri nel giro di poche settimane.

La patologia è stata descritta per la prima volta negli Stati Uniti da due patologi che segnalavano l’aumento dell’incidenza della diagnosi di fibrosarcoma nel gatto da loro riscontrata negli ultimi anni.

Inizialmente tale aumento è stato imputato all’ obbligo di vaccinazione contro la rabbia e alla contemporanea introduzione del vaccino contro la leucemia felina, pertanto questa nuova forma tumorale è diventata universalmente nota come “sarcoma vaccino-indotto”, con grande clamore e preoccupazione.

Al fine di indagare in modo più approfondito sulle cause e stabilire delle linee-guida per l’inoculazione sottocutanea di farmaci nel gatto, nonché per definire la patogenesi e trovare una terapia adeguata e sensibilizzare i veterinari sul problema, nel 1996 si è costituita, sempre negli USA, una task force (Vaccine-Associated Feline Sarcoma Task Force – VAFSTF) composta dai maggiori esperti oncologi veterinari.

In seguito agli studi condotti negli anni successivi si è giunti alla conclusione che non solo i vaccini, ma qualsiasi sostanza inoculata per via sottocutanea o intramuscolare e in grado di indurre una risposta infiammatoria può portare alla formazione del tumore in soggetti predisposti.

Per questo motivo si è deciso di rinominare il tumore “sarcoma iniezione-indotto felino”, denominazione con la quale è ormai riconosciuto.

Il termine “sarcoma” e non fibrosarcoma è legato al fatto che sono numerosi gli istotitpi riconducibili alla stessa patogenesi, sebbene il fibrosarcoma sia la forma più frequente.

EZIOLOGIA E PATOGENESI
Le segnalazioni iniziali di Hendrick e Goldsmith e il successivo lavoro di Kass et al. (1993) avevano imputato l’aumento dei sarcomi e il loro sviluppo in animali mediamente più giovani (media 6-7 anni) rispetto a quanto fino ad allora riportato, alla vaccinazione contro rabbia e leucemia felina, e più probabilmente all’ adiuvante contenuto in tali prodotti.

Inoltre, il rischio di sviluppare il tumore aumentava proporzionalmente al numero di inoculazioni eseguite, passando dal 50% di rischio in più dopo una singola iniezione al 175% in più in seguito a 3 o più inoculazioni nella stessa sede.

L’iniziale incriminazione dell’adiuvante era avvalorata dal ritrovamento sui preparati istologici di materiale amorfo bruno-grigiastro in corrispondenza del centro necrotico della lesione e nei macrofagi che lo circondavano.

Tale sostanza poteva attivare un processo infiammatorio da corpo estraneo che nel tempo e in soggetti predisposti portava alla trasformazione neoplastica.

Attualmente si ritiene che non solo l’idrossido di alluminio impiegato come adiuvante di molti vaccini, ma qualsiasi sostanza in grado di stimolare una risposta infiammatoria cronica possa indurre la formazione del tumore.

Ne sono la prova i sarcomi riscontrati in soggetti mai vaccinati, ma trattati con antibiotici o corticosteroidi a lento rilascio, e di materiale da sutura non riassorbibile.

L’eziologia è comunque multifattoriale, dal momento che lo stimolo infiammatorio da solo, seppur importante, non è sufficiente a determinare la comparsa del tumore, come dimostrato dalla bassa incidenza del SII nella popolazione felina.

Ai fattori fisici si aggiungono quelli genetici, ed anche il sistema immunitario può essere implicato nel processo di trasformazione maligna.

Fattori relativi alla modalità di somministrazione (dimensioni dell’ago, massaggio della parte, manualità nella somministrazione, temperatura del prodotto inoculato, somministrazione sottocutanea o intramuscolare) non sembrano invece influenzare la comparsa del tumore, ad accezione della bassa temperatura della sostanza iniettata.

Anche i liquidi fisiologici quali la soluzione fisiologica non hanno prodotto alcun effetto.

Nessuna correlazione è inoltre stata osservata con la positività per i virus della leucemia o dell’immunodeficienza felina.

Il sarcoma da iniezione nel gatto: cos'è? | Prevenzione e cura | Salute | Magazine

DIAGNOSI
La diagnosi è relativamente semplice e si basa principalmente su segni clinici, raccolta di un’anamnesi accurata e poche indagini strumentali, quali la biopsia ad ago sottile ed eventualmente la biopsia incisionale.

Completano la stadiazione l’esame radiografico del torace o, meglio, la TC del torace e della lesione, mentre l’esame emato-chimico completo e l’esecuzione dei test per FIV e FeLV forniscono indicazioni sullo stato generale dell’animale.

L’età media di insorgenza del tumore è più bassa rispetto a quella di gatti affetti da sarcomi non indotti da iniezione ed è di circa 6-7 anni, con un secondo picco intorno ai 10-11.

Generalmente si assiste ad una crescita improvvisa e rapida della massa, che spesso si trova in regione interscapolare o nelle porzioni laterali del torace o del collo, ma che in soggetti poco trattabili (in cui le iniezioni sono fatte in modo più casuale) può svilupparsi anche nella regione glutea o della groppa. La lesione può apparire come massa ben circoscritta, di consistenza dura o duro-elastica, adesa ai piani profondi, di solito ricoperta di pelo e non dolente né pruriginosa.

In alcuni casi, però, si possono rilevare forme disseminate, granulose, mal definite

L’anamnesi può riportare l’esecuzione di un vaccino o di altra inoculazione avvenuta in media da 1 a 2-3 mesi prima del riscontro del problema, ma in alcuni casi l’ultima inoculazione può risalire anche a parecchi anni prima della visita.

L’esecuzione della biopsia ad ago sottile permette di ottenere la diagnosi di neoplasia mesenchimale nel 50% dei casi, dal momento che si tratta di tumori poco cellulari e spesso cistici, ma anche la descrizione della presenza di un processo infiammatorio con numerosi linfociti e macrofagi non deve escludere completamente la diagnosi di neoplasia.

Importante è quindi la scelta del punto in cui eseguire la biopsia, mentre l’invio al laboratorio del liquido prelevato è inutile.

Nei casi dubbi si può ricorrere alla biopsia incisionale e all’esame istologico.

Sarcoma iniezione-indotto felino (SIIF) - Vetpedia l'Enciclopedia di Medicina Veterinaria

TERAPIA
È ormai riconosciuto che le maggiori possibilità di cura si ottengono con un approccio multimodale alla patologia, in cui l’associazione di chirurgia ad ampia base e radioterapia rappresentano i punti cardine per il controllo locale.

PROGNOSI
Alla luce delle attuali conoscenze la terapia multimodale basata sull’associazione di chirurgia ad ampia base e radioterapia adiuvante o neoadiuvante, con o senza l’ausilio della chemioterapia, è in grado di abbassare il tasso di recidiva locale al 41-44% a 2 anni, mentre il tasso metastatico (prevalentemente al polmone) si aggira attorno al 12-24%.

La sopravvivenza mediana è di 23 mesi, con un tempo mediano libero da malattia di 13-19 mesi.

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PREVENZIONE
Svolge un ruolo importante, vista l’eziologia “iatrogena” del tumore.

Inizialmente le linee guida, al fine di meglio chiarire la reale implicazione dei differenti tipi di inoculazione nello sviluppo della neoplasia, indicarono di somministrare il vaccino contro la Rabbia nell’arto posteriore destro (Right), quello contro la Leucemia felina nell’arto posteriore sinistro (Left) e il normale vaccino polivalente sulla spalla (FVR).

Queste indicazioni hanno in effetti dato i loro frutti, si è osservato, infatti, che a partire da dicembre 1996 il numero di SIIF in aree craniali del corpo è andato progressivamente diminuendo, mentre è aumentata la frequenza nelle aree posteriori.

Nel 2006 la distribuzione del tumore era approssimativamente uguale nei due settori, segno del recepimento delle linee-guida da parte di molti veterinari.

Sempre sulla base di tali riscontri e senza considerare l’influenza di altre sostanze inoculate, si è potuto determinare che il vaccino contro la rabbia era responsabile del 51,7% dei casi di tumore, quello contro la leucemia del 28,6% e quello contro le più comuni forme respiratorie feline: rinotracheite (FVR), Calicivirus (C), panleucopenia (P) e Chlamydia (-C) del 19,7% dei casi.

Questa informazione ribadisce la reale implicazione delle iniezioni nello sviluppo della neoplasia.

Attualmente l’indicazione è quella di eseguire qualsiasi tipo di inoculazione sottocutanea (il tumore si forma anche in seguito ad inoculazione intramuscolare, ma la diagnosi è più tardiva) in regioni facilmente aggredibili chirurgicamente, quali le porzioni laterali dell’addome, lontano dalla colonna vertebrale e dagli arti. In alternativa la porzione più distale possibile dell’arto posteriore può essere utilizzata, tenendo conto, però, che in questo caso l’escissione ad ampia base del tumore prevede l’amputazione dell’arto stesso, sicuramente efficace ma più invalidante rispetto all’asportazione di porzioni di parete addominale.

È in ogni caso sconsigliato vaccinare nuovamente i soggetti che hanno sviluppato il tumore e consigliato di ridurre ai reali casi di necessità la somministrazione per via iniettiva di qualsiasi farmaco.

Infine è compito del veterinario valutare l’opportunità della profilassi vaccinale in base al reale rischio di contagio di ciascun animale.

Anche su questo punto le linee guida, forniscono ottimi parametri di valutazione, così come le informazioni sulla reale durata dell’immunità vaccinale prodotte dall’AVMA.

Linee guida per le vaccinazioni: https://wsava.org/wp-content/uploads/2020/01/WSAVA-Vaccination-Guidelines-2015-Italian.pdf

Il mastocitoma nel cane e nel gatto

Il mastocitoma nel cane e nel gatto

Il mastocitoma (MCT) è il tumore più comune della cute del cane e origina dai mastociti, cellule responsabili delle reazioni allergiche e infiammatorie.

I mastociti contengono al loro interno delle sostanze, in particolare l’istamina, che possono essere responsabili di complicanze locali (eritema, prurito, gonfiore) e sistemiche (vomito, diarrea, shock anafilattico).

Il comportamento biologico o grado di malignità di questi tumori è altamente variabile in base alla specie, al sito di insorgenza ed alla presenza di metastasi.

La presentazione clinica di tale tumore è molto variabile.

In alcuni casi, il mastocitoma può presentarsi sotto forma di un singolo nodulo cutaneo o sottocutaneo con la tendenza ad ingrandirsi o a scomparire.

Altre volte è possibile notare sulla cute un’area più o meno estesa ed eritematosa (segno di Darier).

Ancor più difficile è sospettare la presenza di questa patologia quando vi sia il coinvolgimento degli organi interni in assenza di segni clinici.

I MCT possono avere un comportamento benigno, rimanendo invariati nel corso dei mesi/anni, così come un decorso clinico aggressivo a crescita locale e diffusione metastatica rapida.

I siti principali di metastasi sono rappresentati dai linfonodi regionali, seguiti poi da fegato e milza.

Qualsiasi neoformazione sospetta o nuova lesione cutanea che mostra la tendenza alla crescita ed al cambio di forma riscontrata sul nostro animale deve essere sempre indagata mediante visita clinica ed esame citologico.

La citologia del mastocitoma è infatti una tecnica di campionamento non invasiva e priva di effetti collaterali che, la maggior parte delle volte, può condurre rapidamente ad una diagnosi certa.

 

Il mastocitoma nel cane

Sebbene sia in grado di colpire soggetti di qualunque razza od incrocio, in particolare i soggetti di età media di 8-10 anni, esistono razze predisposte, in particolare:

Boxer

Shar-pei

Carlino

Bulldog francese

Bulldog inglese

Labrador

Beagle

Rhodesian ridgeback

Schanauzer

Bull terrier

Boston terrier

Canine Mast Cell Tumours

Il mastocitoma può comparire ovunque sulla superficie corporea, sia in forma singola che in forma multipla disseminata.

Nel cane il mastocitoma rappresenta il 7-25 % dei tumori cutanei.

Le sedi metastatiche più comunemente interessate in questa forma tumorale sono il linfonodo regionale, la milza ed il fegato, per ultimo i polmoni.

La forma viscerale, in questa specie, è quasi sempre conseguenza di disseminazione metastatica a partire da un mastocitoma cutaneo indifferenziato.

Oltre ai segni diretti causati da questa neoplasia, possono essere osservati segni indiretti o meglio conosciuti come paraneoplastici secondari alla presenza del mastocitoma.

Tra questi ricordiamo le ulcere del tratto gastroduodenale  provocate dal rilascio di istamina  e il ritardo della coagulazione a causa del rilascio di eparina da parte dei mastociti.

I pazienti affetti potranno dunque presentare, oltre alla neoplasia macroscopica, anche i seguenti segni clinici:

Vomito

Anoressia

Perdita di peso

Diarrea

Melena

Ulcere diffuse.

 

Il mastocitoma nel gatto:

Nel gatto il mastocitoma può presentarsi in 3 diverse ed importanti forme:

cutaneo

splenico

viscerale.

La forma cutanea nel gatto rappresenta il secondo tumore più frequente riscontrato a questo livello.

Esso può presentarsi come una piccola lesione nodulare chiara ed alopecica con localizzazione più frequente a testa o collo o, più raramente, come lesioni multiple.

Feline Cutaneous Mast Cell Tumors

Il mastocitoma cutaneo in questa specie si divide in due forme separate: una forma mastocitica (ben differenziata e anaplastica) ed una forma istiocitica.

E’ tendenzialmente benigno ma, esistendo, seppur rare delle forme anaplastiche con carattere metastatico, la stadiazione  e la successiva escissione chirurgica è tutt’oggi consigliata come prima scelta.

La forma splenica rappresenta, nel gatto, il tumore più frequentemente riscontrato a livello della milza.

Esso colpisce gatti adulti senza predisposizione di razza.

Gli animali affetti presentano marcata splenomegalia e sintomi aspecifici come anoressia, abbattimento, perdita di peso, ecc.

Il tasso metastatico ai linfonodi ed agli altri organi è piuttosto elevato, motivo per il quale, dopo stadiazione negativa, la terapia d’elezione prevede la splenectomia.

La forma intestinale, infine, rappresenta il terzo tumore più comune nel gatto in questo distretto.

Esso si presenta come una massa nodulare extraluminale più frequentemente a carico del piccolo intestino.

I proprietari spesso riferiscono dimagrimentodiarrea costante e/o intermittente e vomito.

Alla visita clinica, in particolare alla palpazione addominale, viene spesso percepita una massa.

Questa forma tumorale è molto aggressiva ed altamente metastatica ai linfonodi meseraici e fegato ed anche in questo caso la terapia d’elezione, quando possibile, è chirurgica e spesso accompagnata da chemioterapia adiuvante.

 

La diagnosi di mastocitoma

Come già accennato, il mastocitoma può essere diagnosticato mediante esame citologico oppure mediante esame istologico, riservato ad alcune forme particolari.

Una volta diagnosticato, fondamentale per la pianificazione dell’approccio terapeutico è la stadiazione

Per ottenere la stadiazione devono essere associati diversi tipi di indagine:

esami del sangue (emocromo, biochimico, esame urine, striscio e lettura del buffy-coat)

campionamento linfonodale

diagnostica per immagini (esame ecografico dell’addome con campionamento citologico di fegato e milza ed esame radiografico del torace per escludere metastasi a questi distretti.)

 

Approccio terapeutico

La scelta dell’approccio terapeutico può variare moltissimo in base allo stadio clinico.

Laddove possibile, fino al secondo stadio, la chirurgia risulta la prima scelta, accompagnata successivamente o meno da chemioterapia in base al grado istologico.

Nel terzo stadio, in assenza di coinvolgimento metastatico, la scelta potrebbe ricadere sulla radioterapia o sull’elettrochemioterapia.

La chemioterapia è una pratica innovativa che vede l’associazione di impulsi elettrici con la somministrazione di un farmaco chemioterapico con lo scopo di ridurre gli effetti collaterali sistemici legati alla chemioterapia ma anche quello di potenziare gli effetti citotossici e curativi a livello della regione da trattare.

L’elettrochemioterapia è una tecnica rapida, efficace  e poco invasiva.

La chemioterapia rimane comunque una valida alternativa terapeutica, anche in presenza di fattori prognostici negativi, essendo questo tumore altamente chemioresponsivo.

Esiste, inoltre, un medicinale antitumorale veterinario (tigilanolo tiglato) che può essere usato nei cani per trattare mastocitomi che non possono essere rimossi chirurgicamente e che non si sono diffusi in altre parti dell’organismo.

FIV e FELV: Cosa sono e quando testare i nostri gatti?

FIV e FELV: Cosa sono e quando testare i nostri gatti?

Un proprietario di gatti non può non aver mai sentito parlare di FIV e FeLV, conoscerle è importantissimo per prevenirle e proteggere così i nostri animali.

 

FeLV

Il virus della leucemia Felina (FeLV) è causa di una delle malattie infettive più temibili del gatto.

Il virus della leucemia felina è molto labile e viene distrutto in pochi minuti dagli agenti atmosferici; di conseguenza la via di contagio più comune è rappresentata dal contatto con i liquidi organici infetti,  soprattutto la saliva, ma anche secrezioni nasali, urine, feci e latte materno.

La trasmissione avviene quindi attraverso i contatti sociali o il grooming, ma può avvenire anche attraverso le ferite da morso, ed è maggiore negli ambienti ad alta densità.

In caso di femmine viremiche gravide, solitamente si ha morte embrionale o neonatale, mentre in quelle con infezione latente il virus non è solitamente trasmesso ai feti; solo raramente qualche gattino può comunque risultare positivo.

In questi casi la trasmissione può avvenire perché il virus latente può vivere in una singola ghiandola mammaria e riattivarsi.

L’infezione è più comunemente diagnosticata in gatti tra 1 e 6 anni di età. I gattini, sotto i 5 mesi di età, sono particolarmente vulnerabili a diventare persistentemente infetti. I gatti adulti sono invece più resistenti all’infezione.

Dopo il contagio oronasale, il virus si replica inizialmente a livello delle tonsille e dei tessuti linfoidi locali, poi si distribuisce ai linfociti ed al sistema linfoide fino ad essere portato al midollo osseo, all’epitelio della mucosa intestinale e respiratoria ed alle ghiandole salivari. Questo processo dura 2-4 settimane. Se il virus si localizza a livello di midollo osseo è possibile l’instaurarsi di un’infezione latente. Talvolta la viremia può svilupparsi alcuni mesi dopo una esposizione costante al virus. Il meccanismo che controlla lo sviluppo ed il mantenimento di una viremia è legato al funzionamento più o meno corretto del sistema immunitario.

Dopo che è avvenuta l’infezione, si possono sviluppare quattro risultati:

  • Il gatto può sviluppare una viremia persistente; questo si verifica in circa il 33% dei gatti esposti al virus, e la maggior parte di questi soggetti manifesteranno i segni clinici delle patologie correlate all’infezione che ne determineranno la morte entro 3-5 anni.

 

  • Nel restante 66% dei soggetti, dopo una viremia iniziale transitoria, il soggetto resiste all’evoluzione della fase viremica in persistente, probabilmente per la rapida ed efficace risposta immunitaria umorale che consente di neutralizzare il virus. Nei gatti transitoriamente infetti di solito l’infezione si risolve in 4-6 settimane dopo la penetrazione del virus.
  1.  Circa  il 33% circa dei gatti con viremia transitoria non è in grado di eliminare tutte le cellule infette entro le 4-6 settimane e sviluppa un’infezione latente. In questo caso il virus rimane “nascosto” a livello midollare e può essere  “riespresso” (sviluppo di una nuova fase viremica) in seguito a determinati stimoli o trattamenti corticosteroidi. Nei gatti con infezione latente l’infezione si estingue generalmente nell’arco di 3 anni. I soggetti con viremia transitoria non sviluppano le patologie FeLV-correlate ed il virus non può essere evidenziato nel sangue.
  2. Alcuni gatti (5%) possono sviluppare una forma localizzata dell’infezione. In questa situazione il virus è sequestrato in alcuni tessuti come il tratto gastrointestinale, milza e midollo osseo, dove però può continuare a replicarsi. Una infezione localizzata al tessuto mammario può trasmettere l’infezione ai gattini durante l’allattamento.

FeLV - Malattie Gatti - FeLV, ovvero la leucemia felina

I segni clinici più comuni delle viremia persistente di FeLV sono immunosoppressione, anemia e linfoma. Manifestazioni meno comuni sono malattie immuno-mediate, enterite cronica, disordini riproduttivi e neuropatie periferiche.

La maggior parte dei gatti persistentemente viremici muore entro 2-3 anni.

I gatti FeLV-positivi hanno un rischio di  sviluppare linfomi circa 60 volte maggiore dei gatti FeLV-negativi. Questo tumore pare possa svilupparsi in circa il 25% dei gatti infetti, solitamente giovani, di circa 2-4 anni; le forme più frequentemente diagnosticate sono quelle mediastiniche (timiche, più frequenti, o linfonodali) e multicentriche. Sebbene meno comunemente anche le forme renali, spinali e atipiche (cutanee, oculari)  possono essere osservate in animali positivi per FeLV. La forma linfomatosa meno frequentemente associata a FeLV è quella a carico dell’apparato gastroenterico. In  base a questi dati è ovvio che qualunque gatto che sviluppi un linfoma DEVE essere sottoposto a test per FeLV; ciò può essere utile anche per definire gli aspetti  prognostici della patologia.

La vaccinazione per FeLV è considerata “non-core”, cioè “non essenziale”. In molte circostanze tuttavia il vaccino per FeLV deve essere considerato parte essenziale di un buon programma di prevenzione verso le malattie infettive del gatto. Il piano di profilassi vaccinale deve però essere predisposto per il singolo paziente, sulla base del reale rischio di esposizione all’infezione, che varia con l’età, lo stato di salute, il grado di esposizione ambientale e la prevalenza geografica della patologia.

Negli ultimi 25 anni l’importanza della FeLV  si è gradualmente ridotta, grazie all’utilizzo di programmi di vaccinazione ed all’uso più esteso dei test.

 

 

 

FIV

Il virus dell’immunodeficienza felina  (FIV – Feline immunodeficiency virus) è correlato morfologicamente all’HIV dell’uomo ma è da questo antigenicamente distinto. Entrambi i virus presentano una  patogenesi  simile, caratterizzata da un lungo periodo di latenza clinica durante il quale le funzioni del sistema immunitario gradualmente si deteriorano. Al termine del periodo di latenza può svilupparsi la fase di Immunodeficienza Acquisita (AIDS) che è accompagnata da infezioni opportunistiche, malattie sistemiche direttamente od indirettamente correlate alla presenza del virus e neoplasie.

La trasmissione è soprattutto orizzontale e diretta tra gatti adulti attraverso i morsi durante le lotte e i combattimenti. Studi epidemiologici hanno dimostrato che la prevalenza della FIV è influenzata dal comportamento: l’infezione è quindi più frequente tra i gatti maschi che vivono all’aperto o che hanno la possibilità di uscire da casa. Il 78% dei soggetti è giovane-adulto al momento della diagnosi (2-5 anni);  il virus non è caratterizzato da un’elevata contagiosità, quindi la presenza di più gatti nello stesso ambiente domestico non aumenta la probabilità di contagio a condizione che non vi siano conflitti territoriali.  Altre vie di trasmissione sono molto meno importanti (leccamento, uso in comune di lettiere e ciotole, allattamento, transplacentare). Curiosamente la trasmissione sessuale, che è la via più comune di infezione nell’uomo, appare inusuale nel gatto. La trasmissione verticale si verifica principalmente nelle gatte che vengono infettate nelle fasi precoci della gravidanza.

Il FIV raramente induce  direttamente una malattia. Spesso è una infezione opportunista che causa i segni clinici; l’infezione progredisce attraverso diversi stadi:

  • La prima fase, che è quella primaria dell’infezione, è caratterizzata da sintomi clinici di gravità variabile quali febbre, diarrea, congiuntivite e aumento delle dimensioni dei linfonodi. Molto spesso queste manifestazioni durano poco e passano inosservate. Agli esami di laboratorio si possono tuttavia riscontrare linfopenia e neutropenia marcata.

La gravità dei sintomi della fase primaria varia con l’età: i gattini neonati sviluppano la più grave e persistente linfoadenopatia, mentre i gatti anziani mostrano segni clinici minimi di malattia anche se vanno incontro allo stadio successivo più rapidamente. La mortalità durante la fase iniziale e bassa. Dopo questo stadio solo alcuni soggetti possono sviluppare una linfoadenopatia generalizzata marcata e persistente anche alcuni mesi, che crea diversi problemi dal punto di vista diagnostico in quanto citologicamente può essere talvolta scambiata per una patologia linfoproliferativa.

 

  • La maggior parte dei gatti, terminata la fase acuta, entra nel periodo di latenza dove clinicamente non vi sono alterazioni di rilievo. Questo periodo può durare anni (5-10 anni) e la sua evoluzione verso lo stadio finale dipende da diversi fattori  comprendenti l’età e lo stato di salute del paziente nelle prime fasi dell’infezione, la dose e la via di inoculazione del virus, ed infine le condizioni immunitarie del soggetto.

In linea generale gatti che vengono infettati da cuccioli progrediscono verso lo stadio terminale più velocemente di quelli infettati in età adulta.  Inoltre anche il tipo di vita che conduce l’animale e la possibilità che venga esposto ad altri agenti infettivi riveste una  certa importanza. Infatti tale esposizione può portare ciclicamente ad una attivazione del sistema immunitario e conseguente riattivazione del virus. In questi casi il periodo asintomatico può ridursi a qualche anno.

 

  • Stadio avanzato: i soggetti che entrano nello stadio avanzato della malattia soffrono della sindrome d’immunodeficienza e possono presentare infezioni croniche od opportunistiche. Le malattie più spesso diagnosticate sono la sindrome  stomatite/gengivite/faucite, alterazioni midollari quali anemia e leucopenia, insufficienza renale, altre infezioni opportunistiche (micosi, herpesvirosi, infezioni batteriche, sinusiti, etc), infiammazioni oculari e, meno frequentemente, neoplasie, principalmente linfomi alimentari.

La comparsa di gravi patologie cutanee, parassitarie o micotiche in un gatto adulto devono SEMPRE allertare sulla possibilità che il paziente sia immunodepresso e quindi portare all’esecuzione del test per FIV e FeLV.

Le patologie a carico sia del sistema nervoso centrale che periferico frequentemente complicano il decorso della FIV, possono manifestarsi alterazioni quali sindromi convulsive, alterazioni di comportamento, anisocoria e paresi.

Le stomatiti croniche ulcerative sono la manifestazione più comune nei gatti infetti dal  virus da molto tempo. Questa sindrome pare però verificarsi solo in gatti che sono stati esposti ad altri agenti infettivi oltre che al FIV. L’infezione concomitante più frequentemente identificata nei pazienti con stomatiti FIV-associate è quella da calicivirus che  è quindi considerata un co-fattore nella possibile induzione della sindrome, anche se il meccanismo di sviluppo della patologia non è completamente noto. Sono stati segnalati anche disordini riproduttivi nei gatti infettati da FIV ed essi sono solitamente imputabili alla presenza del virus nei tessuti fetali e placentari. Infine sempre più pubblicazioni riportano il coinvolgimento renale associato a più o meno marcata proteinuria. Il danno renale nei gatti FIV infetti è provocato da lesioni che si verificano sia per la presenza diretta del virus, che come conseguenza di lesioni immunomediate.

Il controllo delle abitudini del gatto rappresenta l’unica forma di profilassi nei confronti dell’infezione da FIV, in quanto attualmente  è disponibile, ma non in Italia,  un unico vaccino di cui peraltro non è ancora nota la reale efficacia. Un gatto che vive in casa e non ha la possibilità di uscire all’esterno non sarà mai soggetto all’infezione da FIV (o da FeLV).

L’immunizzazione dei soggetti FIV positivi contro altri agenti (FHV, FCV, FeLV) è invece indicata in quanto questi gatti sono candidati a contrarre infezioni secondarie e opportunistiche. Inoltre i pazienti FIV positivi andrebbero isolati in modo da non avere contatti con altri soggetti. Il proprietario deve segnalare al veterinario qualsiasi segno clinico eventualmente insorto, in modo da trattare precocemente disturbi potenzialmente gravi. Inoltre deve essere in grado di esaminare le gengive (per evidenziare ittero o pallore delle mucose), di palpare i linfonodi e di controllare i caratteri della minzione e della defecazione del soggetto.

 

Idexx - Test SNAP FeLV/FIV Combo

TEST FIV FELV?

Recentemente il Journal of Feline Medicine and Surgery ha pubblicato un aggiornamento sulle retrovirosi feline, con le relative linee guida per la gestione clinica (Little et al, Journal of Feline Medicine and Surgery 2020; 22: 5–30) e diagnostica.

Le infezioni da FeLV (virus delle leucemia felina) e FIV (virus dell’immunodeficienza felina) sono sicuramente le più comuni cause di malattie infettive dei gatti domestici. La sieroprevalenza è molto variabile e dipende dall’età, sesso, stile di vita, condizioni fisiche e localizzazione geografica prese in considerazione.

Una diagnosi accurata della presenza dell’infezione è importante sia per i gatti infetti che per quelli non–infetti. L’insuccesso o l’errore nella diagnosi dei gatti infetti può portare da una parte alla libera circolazione di soggetti portatori che possono trasmettere il virus, dall’altra alla eutanasia di soggetti sani.

La base per la diagnosi clinica di FeLV e FIV è la presenza dell’antigene circolante (FeLV), degli anticorpi (FIV) e degli acidi nucleici (PCR).

 

FeLV

La FeLV è caratterizzata da un carico antigenico rilevante; di conseguenza i test che valutano la presenza dell’antigene circolante FeLV p27 sono scarsamente  influenzati da fattori esterni quali la presenza di anticorpi di origine materna.

I test standard ricercano l’antigene p27 circolante nel sangue del paziente.

Le circostanze che devono indurre ad eseguire i test per la diagnosi dell’infezione sostenuta da FeLV sono molteplici:

  • ogni volta che ci si trovi di fronte ad un soggetto malato, indipendentemente dall’età, dall’esito negativo dei test eseguiti in precedenza e dalle vaccinazioni effettuate. Si deve, infatti, ricordare che l’infezione sostenuta da FeLV è associata ad una vasta gamma di manifestazioni cliniche;

 

  • qualora un gatto di cui non si conosca lo status epidemiologico venga introdotto in un ambiente domestico in cui non siano presenti altri felini, si impone comunque l’esecuzione dei test poiché il soggetto, anche se al momento sano, potrebbe manifestare la malattia in tempi successivi. Inoltre, sebbene mantenuto in casa, tale soggetto potenzialmente infetto potrebbe fuggire e rappresentare un rischio di esposizione all’infezione per i suoi simili.

 

Il controllo periodico, inoltre, viene consigliato per quei soggetti che siano da ritenersi continuamente a rischio di esposizione all’infezione, come i gatti con libero accesso all’ambiente esterno o i soggetti randagi.

Nel caso in cui si sospetti un avvenuto contatto con il virus, il mancato riscontro di positività mediante i test comunemente impiegati nella diagnosi delle infezioni da FeLV deve comunque indurre il medico veterinario a riesaminare l’animale a distanza di circa un mese dall’ultima potenziale esposizione all’infezione, poichè durante lo stadio pre-viremico della malattia gli esami potrebbero dare esito negativo.

 

Un risultato Positivo ad un test ELISA od Immunocromatografico indica una di queste situazioni:

  • Gatto persistentemente viremico. Se il gatto non riesce ad eliminare il virus nell’arco di 12 settimane dal momento dell’infezione, egli rimarrà infetto. Questi gatti sono suscettibili a sviluppare entro alcuni anni una delle patologie FeLV-associate; inoltre sono un rischio per gli altri gatti perchè eliminano il virus nell’ambiente.
  • Gatto con viremia transitoria. In seguito ad una pronta risposta immunitaria il gatto elimina il virus; dopo 4-6 settimane, gatti con viremia transitoria possono divenire FeLV-negativi; di conseguenza, in ogni gatto FeLV-positivo, l’esame andrebbe ripetuto dopo 6-8 settimane. In altre parole, nessun gatto dovrebbe essere soppresso sulla base di una singola positività al test.
  • Gatto falso positivo o risultato discordante. Ogni risultato positivo in un gatto sano deve far nascere dei dubbi; in particolare tali attenzioni vanno rivolte a quei soggetti che vivono in popolazioni feline a bassissimo rischio, quali i gatti di allevamento o quelli che vivono isolati in appartamento. In questi gruppi di gatti il rischio di un esame FALSO POSITIVO  può arrivare al 50%. Quando si sospetta un risultato falso  positivo, il test va ripetuto in un laboratorio commerciale segnalando con quale test si è ottenuto il primo risultato. Se il risultato è confermato si ritiene il soggetto positivo. Se il risultato è discordante si può ricorrere ad altre indagini.
  • Fino al 30% dei gatti risultati positivi all’ELISA può non essere viremico, ma presentare un’infezione locale a livello di ghiandole mammarie o salivari o dei relativi linfonodi regionali. In questi casi è consigliabile sottoporre il soggetto ad un controllo dopo 6-8 settimane con l’ELISA o con l’IFA.

 

 

Un risultato Negativo ad un test ELISA od Immunocromatografico può significare:

  • gatto non esposto
  • gatto con infezione precedente, ma eliminata
  • infezione precoce, quindi non ancora evidenziabile
  • infezione latente
  • infezione localizzata
  • falso negativo:Un test può essere falsamente negativo se il gatto è stato infettato ma non si è ancora sviluppata una viremia evidenziabile dal test. Perchè un test venga positivo solitamente sono necessarie almeno 2-4 settimane dal momento dell’infezione. I soggetti che vivono all’aperto dovrebbero essere isolati almeno 28 giorni prima dell’esecuzione del test, e ricontrollati dopo 90 giorni, dato che alcuni animali impiegano molto più tempo per sviluppare una viremia.

 

 

 

FIV

I test impiegati per diagnosticare l’infezione da FIV sono basati sul rilevamento degli anticorpi prodotti contro il virus in quanto il FIV non produce quantità di particelle virali sufficienti ad essere rilevate nel sangue o in altri fluidi mediante i test immunologici di routine. Lo standard dei test diagnostici utilizza i sistemi ELISA o in Immonocromatografia per evidenziare gli anticorpi circolanti nel siero dei pazienti e vi sono ormai molti differenti prodotti commerciali.

 

La sieroconversione si realizza  2-4 settimane dopo l’infezione e quindi dopo questo periodo gli anticorpi saranno evidenziabili con i test.  La maggior parte dei kit diagnostici in commercio sono estremamente sensibili: i risultati falsi-negativi sono rari, mentre false positività possono verificarsi in circa un terzo dei gatti se la sieroprevalenza di popolazione è molto bassa. Per questo motivo un soggetto ELISA positivo, specialmente se sano,  andrebbe ritestato con il test western blot.

 

Un test Positivo può indicare tre situazioni:

  • Gatto persistentemente infetto; gli anticorpi anti-FIV sono associati con l’infezione a vita con questo virus.
  • Gattino nato da madre infetta: è bene ricordare che sebbene un soggetto partorito da una femmina positiva sia difficilmente infetto, egli ha sicuramente assorbito tramite il colostro gli anticorpi materni contro il FIV. Testando questo gattino avremo un risultato falso-positivo poiché i test normalmente utilizzati (ELISA, immunocromatografia) evidenziano gli anticorpi, e gli Anticorpi materni possono perdurare per molti mesi prima di declinare, almeno 4 mesi. Ci vogliono poi altri 2 mesi perché avvenga una sieroconversione se il soggetto è stato infettato. Su questa base una diagnosi di FIV non può essere effettuata nel gattino, evidenziando gli anticorpi,  prima del compimento dei 6 mesi di età.
  • Risultato falso positivo. Nessun test è accurato al 100%, per cui è necessario sempre valutare le caratteristiche cliniche e sociali del soggetto testato. Un esame positivo in un gatto con pochissime possibilità di essere infetto (gatto di allevamento mai uscito di casa) presenta sino al 50% di possibilità di essere un falso positivo.

 

 

Un test Negativo può indicare una delle tre possibilità:

  • il gatto non è infetto
  • il gatto è infetto con FIV ma ha anticorpi non evidenziabili al test.
  • il gatto è infetto da FIV ma non produce anticorpi o non li ha ancora prodotti. Ciò si può verificare in pazienti molto ammalati od allo stadio finale dell’infezione, od in gatti in fase acuta di infezione (meno di due mesi post-infezione). In quest’ultimo caso, se è noto il momento dell’evento traumatico (morso), è necessario ritestare il soggetto da 6 a 8 settimane più tardi.
Il forasacco: Un nemico subdolo!

Il forasacco: Un nemico subdolo!

La spiga o “forasacco” è l’arista delle graminacee.

Molte specie di graminacee sono presenti non solo in campi e giardini, ma anche nelle aree urbane e diventano un pericolo subdolo per i nostri animali nel periodo primaverile/estivo.

La particolarità e la pericolosità sono dovute alla caratteristica forma appuntita e lanceolata con presenza di propaggini uncinanti ed apertura “ad ombrello”; grazie a queste peculiarità la spiga si “aggrappa” al pelo dei nostri animali ed arriva alla cute attraverso il pelo, dove riesce facilmente a penetrare nel sottocute.

Oltre alla cute il forasacco può penetrare nei condotti auricolari, nelle cavità nasali, nel cavo orale, nelle congiuntive, negli spazi interdigitali, finanche nell’ apparato genitale.

La particolare disposizione delle appendici consente il movimento della spiga in una sola direzione, così essa può procedere, approfondendosi sempre più, fino a raggiungere le regioni del corpo più disparate, creando danni importanti, fino alla morte dell’animale se non estratta.

 

La sintomatologia dipende, ovviamente, dal sito di localizzazione:

Quando l’arista della graminacea penetra nel condotto auricolare, il sintomo immediato è un forte scuotimento della testa accompagnato, talvolta, da sfregamenti dell’orecchio interessato contro oggetti e/o a terra, oppure da tentativi di grattamento con gli arti; in una seconda fase l’animale tende a tenere il capo in posizione inclinata verso il lato dell’orecchio dolente.

Se il forasacco viene inalato, il sintomo principale è caratterizzato da starnuti persistenti ed intensi, ripetuti sfregamenti del muso e, frequentemente, perdita di sangue da una narice.

Purtroppo l’unico modo che il Medico Veterinario ha per escludere o confermare la presenza del corpo estraneo, e quindi rimuoverlo, è quello di eseguire un’ispezione delle narici in anestesia e con uno specifico strumento: il rinoscopio.

Non meno frequenti sono le penetrazioni nel sacco congiuntivale dell’occhio ( più frequenti nei gatti); a volte la spiga può infilarsi proprio nel bulbo dell’occhio, più spesso all’ interno della palpebra.

In questo caso ci sarà una lacrimazione anomala ed il cane avrà la tendenza a grattarsi con insistenza.
L’occhio sarà tenuto chiuso o semichiuso.

Spesso molti forasacchi si localizzano nel pelo a contatto con la cute, specialmente nello spazio interdigitale e in quest’ultimo caso potrebbe presentarsi una zoppia di vario grado o un leccamento ossessivo della parte.

Una menzione a parte merita la localizzazione bronchiale, forse la più temuta: i vegetali, in questo caso, vengono introdotti attraverso il cavo orale e, attraversata la trachea, si incastrano tra le pareti di un bronco. Qui creano una grave infezione delle vie respiratorie fino a causare degli ascessi.
Con il passare del tempo possono addirittura arrivare a bucare il tessuto polmonare e migrare in altri distretti, causando ulteriori infezioni e rendendo difficoltosa la sua rimozione.

Il sintomo classico è la tosse, intensa e persistente.

Durante i periodi a rischio il miglior metodo è quello di evitare che il proprio amico scorrazzi là dove sono presenti le spighe, ma spesso non è possibile, in quanto essendo un’erba infestante, la si trova praticamente ovunque.

Per prevenire danni da forasacchi è buona norma spazzolare immediatamente dopo la passeggiata il nostro animale, concentrandosi soprattutto nella parte inferiore.

E’ utilissimo controllare bene le zampe in mezzo alle dita, procedura che risulta più semplice se il pelo viene tenuto corto in questa parte. Non dimenticare però di ispezionare la regione ascellare, perioculare e genitale.

E’ bene controllare le orecchie, a maggior ragione nei cani con orecchie lunghe e pendule, è possibile acquistare degli specifici “paraorecchi” che limitano la possibilità di penetrazione delle spighe.

Passeggiare con i nostri amici pelosi è bellissimo, ma è importante anche in questi momenti di svago prestare molta attenzione ed una coccola in più al rientro in casa può salvare la vita!

Animali ed allergia

Animali ed allergia

La dermatite atopica è una malattia cutanea infiammatoria e pruriginosa in cui le caratteristiche cliniche sono comunemente associate alla presenza di IgE (un tipo di anticorpi) dirette contro gli allergeni ambientali.

Gli allergeni associati con maggiore frequenza a reazioni allergiche o di ipersensibilità sono pollini, acari ambientali, alimenti, farmaci e altri composti chimici che possono agire da allergeni.

Le vie attraverso le quali un animale entra in contatto con tali agenti sono quella transcutanea, digestiva e inalatoria.

Nel caso della dermatite atopica esiste una predisposizione genetica verso la malattia ed è necessario un contatto ripetuto con gli allergeni coinvolti.

Quali sono i sintomi più comuni?

Senza dubbio, il sintomo più caratteristico è il prurito intenso. In secondo luogo, l’animale presenta lesioni, infezioni secondarie o perdita di pelo.

Le lesioni possono comparire su viso, parte ventrale del collo, ascelle, inguine, addome e superfici dorsali e ventrali delle zampe. In molti casi, l’otite esterna può essere l’unico segno clinico evidente.

Quali sono le allergie più comuni note?

  • Dermatite allergica da pulci (DAP):
    è l’allergia più comune nei cani. Il problema può essere risolto solo mediante un controllo rigoroso delle pulci, sia sull’animale che nell’ambiente in cui vive.
  • Dermatite atopica:
    con questo nome si designa l’allergia causata da allergeni ambientali, come pollini o acari. La dermatite atopica del cane (DAC) è una sindrome complessa e multifattoriale, in cui la genetica dell’individuo e il suo rapporto con gli allergeni coinvolti rivestono un ruolo fondamentale.
    La sintomatologia compare generalmente tra i 6 mesi e i 3 anni di vita. Solitamente gli animali colpiti presentano prurito su viso, parte ventrale del collo, ascelle, inguine, addome e superficie dorsale e ventrale degli arti distali. In molti casi, l’otite esterna può esserne l’unico segno clinico.
  • Allergia alimentare (reazione avversa all’alimento):
    alcuni componenti della dieta alimentare possono essere la causa della condizione allergica del paziente, nel quale si possono osservare segni digestivi concomitanti. L’eliminazione dalla dieta dell’alimento o dell’ingrediente dannoso è l’unico modo per evitare i sintomi.

 

ALLERGIA AGLI ACARI

Gli acari sono piccoli artropodi della famiglia dalla zecca e del ragno di dimensioni inferiori a 0,3 mm. In particolare, gli acari responsabili del maggior numero di allergie sono quelli della polvere (Dermatophagus pteronyssinus e Dermatophagoides farinae) e quelli delle derrate alimentari (Tyrophagus putrescentiae, Lepidoglyphus destructor e Acarus siro).

Acari della polvere

Gli acari della polvere prendono il nome dalla loro fonte di cibo preferita: le squame cutanee (“dermato” = “pelle” e “phagos” = “mangiare”, da cui “mangiatori di pelle”). Le condizioni del loro habitat sono di solito temperatura pari a 20ºC e umidità relativa superiore al 70%. Si trovano in cuscini, materassi e tappeti domestici. La concentrazione nelle case di acari della polvere aumenta durante i periodi di cambio di stagione (primavera, autunno) caratterizzati da precipitazioni e temperature miti, e di solito diminuisce durante l’estate (clima secco e caldo) e l’inverno (clima freddo e secco). Gli allergeni degli acari più frequentemente responsabili di allergie si trovano sia nel loro corpo che nelle loro feci.

Acari delle derrate alimentari

Gli acari delle derrate alimentari si trovano molto comunemente negli alimenti secchi conservati (mangimi secchi, cereali, legumi, semi, frutta) e, soprattutto, negli alimenti ricchi di grassi e proteine. All’interno delle case è possibile trovarli soprattutto in cucina e in bagno, in quanto traggono beneficio dall’umidità.

Consigli per ridurre l’esposizione domestica agli acari

  • Eliminare dalla casa tappeti o moquette, soprattutto dalla cuccia dell’animale, o utilizzare tappeti lavabili di piccole dimensioni.
  • Sostituire con materiali sintetici il materiale della cuccia se contiene lana, cotone, crine o piume.
  • Lavare la biancheria della cuccia dell’animale con acqua calda (>60ºC) ogni 15 giorni.
  • Areare la casa ogni giorno e passare almeno una volta alla settimana l’aspirapolvere nella zona in cui dorme l’animale.
  • Nella routine di pulizia quotidiana della casa è possibile aggiungere un ectoparassiticida nel sacchetto dell’aspirapolvere. Utilizzare l’aspirapolvere quando l’animale non è presente.
  • Utilizzare prodotti acaricidi ogni 3 mesi nei luoghi della casa accessibili all’animale.
  • Tenere il cibo fresco e asciutto, lontano da zone umide, ed evitare l’ingresso di acqua nel piatto dell’animale.
  • Evitare la contaminazione del mangime secco con acari delle derrate alimentari sostituendo frequentemente i sacchi di mangime ed esponendoli il meno possibile ad umidità elevata.
  • Fare il bagno all’animale, in quanto ciò aiuta ad eliminare gli allergeni depositati sulla pelle.

È importante ricordare che queste misure possono contribuire a ridurre l’esposizione agli acari. Tuttavia, la loro completa eliminazione dall’ambiente è praticamente impossibile.

ALLERGIA AI POLLINI NEGLI ANIMALI

Polline delle graminacee

Le graminacee sono una famiglia molto numerosa di piante che crescono non solo su praterie e pascoli, ma anche in aree detritiche, su suoli coltivati o abbandonati o lungo il ciglio della strada; vale a dire, quasi ovunque, dal livello del mare alle zone montuose. Le graminacee si trovano generalmente in qualsiasi giardino e sono responsabili della maggior parte delle allergie polliniche.

Sebbene la massima impollinazione avvenga nei mesi di aprile, maggio e giugno, nel nostro paese è possibile rilevare i pollini delle graminacee 10 mesi all’anno. Esiste una notevole correlazione tra il clima e l’impollinazione delle graminacee. Infatti, se le piogge sono abbondanti, la concentrazione di polline in primavera è maggiore.

Polline delle erbe infestanti

Le erbe infestanti, o erbacce, sono un tipo di piante che crescono su banchi di sabbia, in pianura, lungo il ciglio della strada e sul bordo di campi coltivati. La massima impollinazione della maggior parte delle piante appartenenti a questo gruppo avviene in estate, benché ci siano eccezioni; la parietaria, ad esempio, oltre ad essere la specie responsabile della maggior parte delle allergie, ha un lungo periodo di impollinazione (da marzo a ottobre).

Polline degli alberi

Generalmente il periodo di impollinazione degli alberi è breve, pertanto i pazienti presentano di solito manifestazioni cliniche solo per brevi periodi di tempo.

L’impollinazione avviene prima, durante o subito dopo la comparsa delle foglie, per cui nei climi temperati l’impollinazione termina quasi alla fine della primavera, quando gli alberi sono pieni di foglie. Tra gli alberi con i pollini più allergenici spiccano l’olivo e il salice.

 

Raccomandazioni per ridurre l’esposizione ai pollini

  • Durante la stagione dell’impollinazione, evitare di portare l’animale domestico in aree con abbondante vegetazione, soprattutto nelle prime e ultime ore del giorno.
  • Areare la casa durante le ore centrali del giorno o di sera.
  • Evitare situazioni di elevata esposizione ai pollini, come falciare il prato in presenza dell’animale. Evitare di accedere a luoghi con sovraccarichi di polline, come i fienili.
  • Quando si viaggia in auto, tenere chiusi i finestrini.
  • Evitare di fare giri in campagna e attraversare parchi e aree verdi nei periodi di maggiore esposizione, soprattutto nelle giornate secche, calde e molto ventose.
  • Fare il bagno all’animale, in quanto ciò aiuta ad eliminare gli allergeni depositati sulla pelle.

REAZIONI AVVERSE AGLI ALIMENTI NEGLI ANIMALI

Le reazioni di intolleranza alimentare comprendono qualsiasi risposta anomala non immunologica a un alimento e includono tossicità, reazioni idiosincratiche, reazioni farmacologiche e reazioni metaboliche. La dermatite allergica indotta da alimenti (DAIA) è definita come una reazione immunitaria esagerata e anomala ad un alimento, indipendente dall’effetto fisiologico dei suoi componenti.

La difficoltà di differenziare le reazioni puramente allergiche dalle reazioni di intolleranza alimentare porta ad inglobare tutte queste reazioni sotto il nome comune di “reazioni avverse agli alimenti”. Le reazioni avverse agli alimenti sono di origine non immunologica. La maggior parte dei cani e gatti con DAIA presentano manifestazioni cutanee accompagnate o meno da segni digestivi, sebbene la via d’ingresso dell’allergene sia quella intestinale. Non è molto chiaro perché alcuni cani e gatti presentino segni cutanei, altri segni gastrointestinali e altri una combinazione di entrambi. Esistono diverse ipotesi al riguardo.

Segni clinici

La dermatite allergica indotta da alimenti (DAIA) è l’allergia con la manifestazione più precoce. Infatti, nel 48% degli animali i segni clinici insorgono prima dell’anno di età. I segni clinici della DAIA sono prurito non stagionale e lesioni associate alla gravità del prurito o allo sviluppo di frequenti infezioni secondarie. La presenza di prurito nelle orecchie e nell’area perianale è molto caratteristica della DAIA, e nei pastori tedeschi è stata osservata una correlazione significativa tra la DAIA e la presenza concomitante di otite e fistole perianali. La prevalenza dell’otite durante il decorso della DAIA è molto elevata, con comparsa in fino all’80% dei casi, nel 24% dei quali essa può essere l’unica manifestazione clinica. Il quadro clinico di un’allergia alimentare può essere molto simile a quello di una dermatite atopica, in quanto tale patologia presenta gli stessi segni clinici e interessa le stesse aree (viso, padiglioni auricolari, ascelle, area inguinale e addome), rendendo impossibile distinguere tra le due condizioni in base alla sintomatologia clinica dell’animale. D’altro canto, è stato dimostrato che esiste una correlazione significativa tra le due condizioni; infatti, secondo i diversi studi condotti, dal 3 al 30% degli animali soffre di entrambe le allergie.

Nel caso dei felini, la presentazione clinica può consistere in prurito non stagionale generalizzato, lesioni del complesso del granuloma eosinofilo, prurito alla testa e al collo, dermatite miliare, alopecia autoindotta, dermatite esfoliativa e, in alcuni casi, angioedema e orticaria.

Diagnosi

L’unico test efficace e valido per la diagnosi delle reazioni avverse agli alimenti è rappresentato da una dieta di eliminazione della durata di 8 settimane con controllo della scomparsa dei segni clinici in tale lasso di tempo. La diagnosi sarà eseguita a seguito della ricomparsa dei segni clinici dopo l’esposizione dell’animale agli alimenti che assumeva in precedenza e alla loro scomparsa a seguito del ritorno alla dieta ipoallergenica.

A livello di analisi di laboratorio, analizzando un campione di sangue è possibile stabilire se l’animale presenta anticorpi contro allergeni di origine animale o vegetale. Occorre però menzionare che l’interpretazione dei test ha un valore più che altro predittivo; i risultati negativi si aggirano intorno all’80%.

Risultati immagini per CAT EATING MEME

Come viene diagnosticata l’allergia negli animali

La diagnosi della DAC si basa su un corretto protocollo diagnostico nell’ambito del quale devono sempre essere escluse le cause più comuni di prurito nei cani, come l’ectoparassitosi o le infezioni batteriche o fungine.

Purtroppo non è sempre possibile dimostrare la presenza di IgE mirate agli allergeni ambientali.

Analizzando un campione di sangue è possibile stabilire se l’animale presenta anticorpi contro la saliva delle pulci, contro agenti patogeni microscopici come Malassezia o contro allergeni ambientali.

Nel caso dell’allergia alimentare, il modo migliore per escluderla/diagnosticarla è mediante una dieta di esclusione o eliminazione della durata di almeno 8 settimane. Tale dieta dovrebbe basarsi su proteine nuove per l’animale o su alimenti commerciali altamente idrolizzati. I test di allergia alimentare sono utilizzati per stabilire quali alimenti occorre evitare di includere nella dieta di eliminazione.

Da tempo sono disponibili alcuni criteri diagnostici che i medici possono utilizzare per identificare i casi dermatologici suscettibili di essere una DAC. Uno studio di Favrot et al. ha dimostrato che, se vengono applicati 5 degli 8 criteri clinici riportati di seguito, è possibile diagnosticare la DAC con una sensibilità dell’85% e una specificità del 79% e differenziarla da altre malattie associate a prurito ricorrente o cronico.

Criteri di Favrot

Criteri diagnostici per la dermatite atopica del cane (almeno 5 confermati)

  1. Comparsa dei segni prima dei 3 anni di vita
  2. Cane che vive principalmente in ambienti interni
  3. Prurito che risponde ai glucocorticoidi
  4. Prurito sine materia nella fase iniziale (es. prurito primario/senza lesioni)
  5. Interessamento delle zampe anteriori
  6. Interessamento dei padiglioni auricolari
  7. Margini auricolari non interessati
  8. Area dorso-lombare non interessata

È disponibile un trattamento per il controllo dell’allergia?

L’allergia può essere controllata fino a far sì che l’animale non sia sintomatico, vale a dire, che non si gratti. Nel caso delle reazioni avverse a un alimento e dell’allergia al morso di pulce, il trattamento consiste nell’evitare gli allergeni (gli ingredienti coinvolti nel quadro clinico e la presenza di pulci, sia sull’animale che nell’ambiente in cui vive).

Nel caso della dermatite atopica del cane (DAC) è impossibile mantenere uno stretto controllo della presenza degli allergeni ambientali coinvolti, pertanto occorre ricorrere a terapie farmacologiche o all’uso dell’immunoterapia. L’immunoterapia dovrà essere considerata il trattamento di scelta per il controllo della DAC.

Grazie a Letiph.

UNA SPERANZA PER LA FIP!

UNA SPERANZA PER LA FIP!

UNA SPERANZA PER LA FIP!

Un nuovo articolo, da poco pubblicato sulla rivista internazionale Journal of Feline Medine and Surgery, (Pedersen et al; JFMS 2019; Vol 21: 271-281), con la partecipazione del prof. Niels Pedersen, la più eminente autorità in fatto di FIP, riaccende le speranze per i gatti affetti da questa patologia.

 

COS’è LA FIP?

Fip è l’acronimo di peritonite infettiva felina, un’ infezione causata da un coronavirus felino (FCoV) molto comune negli ambienti ad elevata densità di gatti (allevamenti, gattili… ).

Non tutti i gatti infetti sviluppano la FIP, lo stress (adozione, castrazione, trasferimento, soggiorno in pensione) contribuisce in maniera importante a scatenare la malattia.

La FIP è particolarmente odiosa e drammatica in quanto è molto comune nei gattini con meno di un anno di età; i gattini di razza sembrerebbero essere maggiormente colpiti.

Il virus FCoV sopravvive per circa due mesi nell’ambiente secco, ma è rapidamente inattivato da detergenti e disinfettanti.

L’infezione avviene principalmente tramite materiale fecale, è molto rara la trasmissione del virus tramite saliva o durante la gravidanza.

I gatti iniziano ad eliminare il virus entro una settimana dall’infezione e continuano ad eliminarlo per settimane o mesi, a volte per tutta la vita.

La FIP è causata da varianti del FCoV (mutanti) che si riproducono rapidamente nei macrofagi e nei monociti (cellule del sistema immunitario); la carica virale e la risposta immunitaria del gatto determinano l’eventuale comparsa della FIP.

 

Segni clinici di FCoV vs FIP

La maggior parte dei gatti infettati da FCoV è asintomatica o presenta moderata sintomatologia gastroenterica.

In caso di mutazione, la FIP compare, invece, con febbre altalenante, anoressia, perdita di peso, depressione del sensorio.

La FIP può poi svilupparsi in due forme:

  • FORMA ESSUDATIVA (FIP UMIDA): Con polisierosite (ascite, versamento toracico o pericardico) e vasculite.
  • FORMA NON ESSUDATIVA (FIP SECCA): Caratterizzata da lesioni granulomatose in diversi organi (reni, intestino, linfonodi).

Altri segni clinici possono essere:

  • Oculari: Uveite, precipitati cheratici nella camera anteriore dell’occhio, manicotti periva scolari retinici e corioretinite piogranulomatosa.
  • Neurologici: Atassia, nistagmo, convulsioni, alterazioni comportamentali, deficit dei nervi cranici.

 

 Versamento addominale in FIP “umida”

 

Uveite in FIP “secca”

 

Diagnosi

AD OGGI NON SONO DISPONIBILI TEST DI CONFERMA NON INVASIVI PER LA FIP SECCA.

I reperti di laboratorio, da correlare con la sintomatologia clinica, comprendono linfopenia, anemia non rigenerativa, aumento delle proteine totali del siero, iperglobulinemia al tracciato elettroforetico, riduzione del rapporto albumina/globuline, aumento dei titoli anticorpali anti-FCoV.

Non è più disponibile l’analisi dell’ α-1 glicoproteina acida.

Da solo, un elevato titolo anticorpale anti-FCoV NON HA VALORE DIAGNOSTICO!

 

Il versamento indicativo di FIP “umida” mostra positività al test di Rivalta, elevato livello di proteine, ridotto rapporto albumina/globuline, presenza di neutrofili e macrofagi e positività al test FIP Virus RT-PCR (solo presso laboratori specializzati).

I test RT-PCR per il FCoV su campioni di sangue non sono utilizzabili per la diagnosi, perché non è possibile distinguere i virus mutanti che inducono la FIP dai “normali” FCoV.

Infine la presenza di cellule positive per gli antigeni del FCoV (immunofluorescenza, immunoistochimica su campioni bioptici provenienti da piogranulomi o sedimento cellulare del liquido ascitico) identificate presso laboratori specialistici conferma la FIP.

 

Gestione della malattia

Ad oggi la FIP ha una prognosi infausta, il trattamento di supporto ha l’obiettivo di inibire la risposta immunitaria nociva in genere con corticosteroidi.

 

Negli ambienti domestici in cui è deceduto un gatto con FIP, è consigliabile attendere due mesi prima di introdurre un altro gatto. Gli altri gatti dello stesso ambiente sono probabilmente portatori del FCoV.

 

La FIP è un problema nei gatti che vivono in gruppo (allevamenti e gattili) e viene raramente osservata nei gatti che vivono sia in casa che all’aperto.

È possibile ridurre il rischio di contaminazione mediante un’igiene rigorosa e tenendo i gatti in gruppi piccoli e ben adattati, con lettiere in numero sufficiente e frequentemente pulite o ancora con accesso all’aperto.

I gatti che eliminano il FCoV possono essere identificati mediante lo screening con test RT-PCR quantitativo delle feci, sebbene siano necessari diversi campioni (4 campioni nell’arco di 3 settimane).

 

LA NOVITA’

Il Dr Pedersen ha testato un inibitore della replicazione dell’RNA virale, il GS-441524, che precedentemente aveva dimostrato una efficacia in vitro su culture cellulari infettate con il coronavirus della FIP (FIPV), quindi su gatti sperimentalmente infettati con FIPV ad ora su gatti naturalmente affetti da FIP.

In totale, 31 gatti con una diagnosi di FIP (in forma umida o secca) basata su diversi rilievi di laboratorio, ma non sempre con una diagnosi eziologica definitiva, sono stati trattati con il prodotto sperimentale anti-virale. Di questi, 5 sono stati soppressi nei primi giorni del protocollo a causa di un rapido deterioramento delle condizioni.

I restanti 26 gatti hanno mostrato un rapido miglioramento delle condizioni cliniche con la scomparsa dei principali segni e sintomi dell’infezione.

Di questi 26 gatti, 18 hanno completato il ciclo di trattamento, e non hanno mostrato segni di recidiva al momento della pubblicazione dello studio.

Gli altri 8 hanno avuto recidive, che sono state però controllate con un aumento del dosaggio del farmaco. Un gatto è quindi deceduto per cause non legate alla FIP (insufficienza cardiaca dovuta ad una cardiomiopatia ipertrofica) e uno a causa dello sviluppo di una FIP in forma neurologica, refrattaria al trattamento.

Lo studio ha ovviamente dei limiti (ridotto numero di gatti trattati; diagnosi virale/eziologica non sempre disponibile o identificata, ma basata in molti casi su un insieme di rilievi clinici e di laboratorio; durata del follow-up; ecc.), però rappresenta finalmente una concreta speranza per il trattamento di questa infezione, che miete ogni anno migliaia di vittime nella popolazione felina di tutto il mondo!

 

Per approfondimenti:

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/m/pubmed/30755068/?fbclid=IwAR2JwzK50LToxdXDe5a4lb5qgekkhPue0Ec4ayv_RoWuyWSjx3D46poHjTg

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